Secondo una tendenza non rara, in comunità segnate in guerra da fatti luttuosi, le narrazioni pubbliche degli eventi hanno spesso lasciato spazio a memorie “divise” e “lacerate”.
L’impossibilità di giungere, nel quadro politico nazionale ed internazionale del dopoguerra, ad una verità storica condivisa, al pari dell’incapacità o della rinuncia delle autorità a individuare e perseguire i responsabili dei crimini, dando giustizia ai familiari delle vittime, hanno impedito a molte comunità “stragizzate” di rielaborare in modo non conflittuale le proprie memorie luttuose. L’eccidio del Duomo è in tal senso esemplare, essendone rimaste a lungo contestate le cause. In questo senso si spiega l’apparente incongruenza che può colpire il visitatore qualora legga i testi delle due lapidi commemorative dell’eccidio poste sull’ingresso del Museo, l’una indicandone la responsabilità all’esercito tedesco, l’altra, più recente, alle forze armate americane.
Dopo i fatti del 22 luglio 1944 furono avviate tre inchieste. Le prime due, promosse dalle autorità alleate, stabilirono che il massacro era stato provocato da una bomba a orologeria o da una mina piazzata dai tedeschi col preordinato intento di punire la popolazione per il suo atteggiamento ostile. Una terza, voluta dal governo locale e affidata nelle conclusioni al giudice del tribuale di Firenze Carlo Giannattasio, escludeva l’ipotesi della bomba a tempo e stabiliva che la chiesa era stata colpita contemporaneamente da due granate, una tedesca e una americana, salvo però attribuire la causa della strage al proiettile sparato intenzionalmente dalle artiglierie germaniche. Al contempo, l’inchiesta scagionava da ogni responsabilità il vescovo Giubbi, sul conto del quale però rimasero calunniosi sospetti. Nel 1954, in occasione del primo decennale della strag, l’Amministrazione comunale appose sulla facciata del Palazzo Municipale una lapide commemorativa a firma di Luigi Russo che confermava essersi trattato di “gelido eccidio pepetrato dai tedeschi” per mezzo di “micidiale granata”. Il canonico della cattedrale, Don Enrico Giannoni, replicò con un’inchiesta documentale e balistica che attribuiva la causa della strage ad un proiettile americano entrato accidentalmente da un rosone del lato sud del Duomo ed esploso nel presbiterio. Negli anni seguenti, la tesi del massacro preordinato dai tedeschi rimase prevalente. Tuttavia il dibattito pubblico sulla strage assunse una netta connotazione politico-ideologica che localmente vide contrapporsi gli ambienti della curia, inclini all’ipotesi della granata americana, e l’amministrazione municipale di sinistra, decisa a ribadire la matrice tedesca della strage per rafforzare l’identità antifascista della città.
A partire dalla metà degli anni Novanta, grazie anche alla nuova documentazione rinvenuta a Roma nell’”armadio della vergogna” contenente i 695 fascicoli processuali relativi ai crimini di guerra commessi in Italia e illegalmente archiviati dalla Procura militare nel 1960, sul caso San Miniato furono condotti nuovi studi a sostegno dell’una o dell’altra tesi col seguito di ulteriori polemiche e persino accuse politicamente orientate a riguardo di un deliberato piano disposto sin dal 1944 dalle locali forze antifasciste per nascondere la verità sulla strage. A partire dal 2002, con l’avvio dell’ultima fase processuale sui crimini di guerra, il giudice per le indagini preliminari del Tribunale militare di La Spezia, Marco De Paolis, riesaminava il caso e nell’agosto del 2006 disponeva l’archiviazione del procedimento avallando la tesi di un incidente dovuto a un colpo di artiglieria americano. Nel 2002, una commissione di studio sulla figura del vescovo Ugo Giubbi nominata dalla curia, confermò l’assenza di responsabilità del prelato, mentre nel 20004 una nuova commissione di inchiesta incaricata dall’Amministrazione comunale ribadì la tesi del tiro accidentale alleato. Nel 2008 una seconda lapide commemorativa dettata dall’ex Presidente della Repubblica Oscar Luigi Scalfaro e apposta sulla facciata del Palazzo Comunale accanto a quella del 1954 recepiva la “responsabilità delle forze alleate” pur riconoscendo nei tedeschi i “responsabili della guerra”.
Nel 2015 la Giunta comunale dispose il trasferimento delle due lapidi presso il complesso monumentale di San Domenico, all’ingresso del costituento Museo della Memoria. Qui le lapidi, in quanto testimonianze di una memoria lacerata che ha diviso e continua a dividere la comunità sanminiatese, trovano finalmente uno spazio di discussione sano e democratico, dove la comunità potrà auspicare la riconciliazione nel rispetto dei sentimenti e delle memorie di coloro che vissero e interpretarono quegli eventi.