La Sala delle Sette Virtù o Sala del Consiglio o, più anticamente, Sala Leonis, è l’ambiente in cui fino ad anni recenti si sono riuniti gli organi di governo della città. Attualmente è utilizzata come sala di rappresentanza per cerimonie ma è stata per molti secoli il cuore della vita politica della comunità di San Miniato.
Fa parte del primo nucleo costruttivo del Palazzo che risale alla fine XIII secolo. Questo comprendeva al piano terra, con accesso dalla strada, la cappella e l’adiacente sacrestia e, al primo piano, la Sala Leonis e l’adiacente cancelleria. L’unione della sfera religiosa con quella politica, così evidente nel primo impianto del palazzo e nella decorazione della Sala del Consiglio, è tipica del medioevo e si riscontra in tutte le costruzioni civiche dell’età dei Comuni. La decorazione della sala fa diretto riferimento alla funzione che ha svolto per secoli, quella di ospitare le riunioni delle magistrature locali, dapprima i Signori Dodici difensori del popolo e il Vessillifero di Giustizia, successivamente, quando San Miniato perde l’autonomia comunale ed entra a far parte della Repubblica Fiorentina, nel 1369, i Priori, i Capitani del Popolo, il Vessillifero e il Vicario della città di Firenze. L’aspetto più suggestivo della sala deriva infatti dalla presenza, su tutte le superfici dell’ambiente, delle insegne e degli stemmi araldici dei funzionari che governarono la città.
Insegne araldiche
Le insegne araldiche oggi visibili, dipinte o scolpite, risalgono quasi tutte al XV secolo e sono quindi relative ai vicari della Repubblica di Firenze che all’epoca avevano giurisdizione politica e penale su san Miniato e il Valdarno inferiore. I funzionari che si susseguivano lasciavano a ricordo del loro operato in città lo stemma della propria famiglia.
Alcuni esempi di insegne araldiche presenti nella Sala delle Sette Virtù
L’uso di lasciare l’insegna familiare risale ad un’ antica regola di molti comuni italiani che imponeva ai governatori forestieri di donare alla comunità governata il proprio scudo o un’arma decorata con lo stemma di famiglia. Successivamente l’uso del dono dello scudo venne sostituito da quello dell’immagine dello stemma. Lo stemma più antico presente nella sala risale al 1393. E’ lo stemma di un Guicciardini, probabilmente Luigi di Piero e si vede al margine superiore dell’unica scena di soggetto sacro dipinta nella sala. Il resto della decorazione è costituito da un gran numero di stemmi di dimensioni diverse. Le forme degli scudi sono molto varie: a mandorla, da torneo a tacca, a testa di cavallo, a bandiera; altrettanto numerosi sono gli animali: leoni, pantere, cigni, animali fantastici con il capo racchiuso in elmi piumati a becco di passero, quasi a comporre un variopinto giardino zoologico araldico.
L’uniformità decorativa della sala, soprattutto nelle specchiature dello zoccolo e nelle partiture architettoniche, si deve all’intervento di restauro realizzato nel 1898 da Galileo Chini, pittore, ceramista e illustratore tra i più celebri del Liberty italiano. La firma di Chini e la data del restauro si possono vedere sullo zoccolo in finto marmo a metà della parete sinistra. L’intervento di restauro si inserisce bene nel clima tardo ottocentesco italiano in cui il recupero della cultura medievale e della storia degli antichi comuni serviva ad esprimere gli ideali patriottici e i caratteri dei popoli della nuova Italia unita.
Madonna in Trono con Virtù
Madonna in Trono con Virtù (terza campata di sinistra): Si tratta di una Madonna in trono che allatta il Bambino circondata dalle Virtù teologali (Fede, Speranza, Carità) e delle Virtù Cardinali (Giustizia, Prudenza, Fortezza, Temperanza).
Sul bordo inferiore l’immagine è commentata da una singolare didascalia in forma poetica: è un sonetto caudato e illustra il significato allegorico delle virtù in relazione al governo del Vicario Guicciardini:
Quanto fur l’opre sue perfecte e sante / Ti dimostran, lector, le sette donne, / Del regimento suo ferme cholonne, / Chel fan d’eterna fama trionfante. / Esempio prenda chi verrà davante / Del gran guadagno che secho portonne, / che i cuor delli uomini tucti et de le donne / Volle, né giammai tolse un vil bisante. / E nel novanta tre dopol trecento / Et mille, resse sì il Vicariato, / Che ciaschun fu da lui sempre contento. / In pace tenne tucti et in buon stato; / Fu in sua chorte ciascun vitio spento, / Tenendo le virtù che vedi, a lato. / Onde sempre obbligato / Gliè ciascheduno, et grandi et piccolini, / E per suo amore, a tucti i Guicciardini. Il sonetto dice che la buona fama del Vicario Guicciardini e la stima che ottenne dai cittadini gli vennero da un operato ispirato alle virtù rappresentate nell’affresco ed invita i successivi governanti a praticare le stesse virtù. L’affresco di San Miniato è attribuito a Cenni di Francesco, allievo di Andrea Orcagna e attivo a San Miniato alla fine del Trecento.